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Cenni storici

Montecchio di Vidolasco, un insediamento dell'età del Bronzo Finale (X secolo a.C.)

Purtroppo la frammentarietà e sporadicità dei ritrovamenti impedisce la ricostruzione di un quadro soddisfacente del popolamento pre-romano nel Cremasco. È comunque certa la presenza dell'uomo nel territorio fin dal Mesolitico, grazie al ritrovamento di tracce di industria litica a Pieranica, Camisano, Ricengo ed Offanengo e nella successiva età del Rame per la quale abbiamo reperti da Vidolasco  e Camisano, dove è possibile, in base ai cospicui ritrovamenti di superficie, ipotizzare la presenza di un insediamento di una certa importanza appartenente appunto a questo periodo .

l'età del Bronzo è testimoniata da reperti provenienti da Crema e da Ricengo, ma il sito più ricco di reperti e più importante in assoluto, non solo per il Cremasco ma anche per la Lombardia, è sicuramente Vidolasco.

La presenza di cocci nel terreno del dosso Montecchio a Vidolasco era nota già da alcuni anni quando il professor Pantaleone Lucchetti ne diede notizia al Congresso dei Naturalisti Italiani nel 1906 . Nel 1960 la Soprintendenza, grazie all'interessamento della contessa Ginevra Terni de' Gregorj, di don Angelo Aschedamini, e degli architetti Amos Edallo e Corrado Verga, procedette ad una prima indagine sul dosso Montecchio. Lo scavo, aperto tra giugno e luglio, si estese per circa 50 m2 e venne curato dall'assistente della Soprintendenza Angelo Cirillo sotto la direzione del prof. Ferrante Rittatore Vonwiller e del soprintendente Mario Mirabella Roberti.

Lo sterro rivelò la seguente stratigrafia: il primo livello incontrato era costituito da 15 cm di humus seguito da uno strato di 50 cm di terreno sassoso con rari cocci; il terzo livello era costituito da uno strato ricco di reperti, spesso circa 50 cm, seguito da uno strato di concotto (argilla indurita dal calore) dello spessore variabile tra i 10 ed i 25 cm e due buchi di palo; sotto questo livello vi era il terreno sterile.

Planimetria dello scavo

Non è possibile stabilire la forma, la natura e la funzione della costruzione alla quale appartenevano i buchi di palo e lo strato di concotto, che potrebbe essere un focolare, a causa della esiguità dei dati in proposito. È comunque certo che si tratta dei resti di un insediamento, ma allo stato attuale delle ricerche non è possibile stabilire se fosse di natura abitativa o artigianale oppure se assommasse entrambe le funzioni.

La maggioranza dei reperti è costituita da più di un migliaio di frammenti di vasellame di tipologia e dimensioni alquanto varie a seconda dell'uso al quale erano destinati, essi sono assegnabili al Protogolasecca tipo Cà Morta (X secolo a.C) ed a quello più antico tipo Ascona (XII-XI secolo a.C) oltre al tipo Este I.

Tra i reperti ceramici troviamo:

  • urne bitroncoconiche ad orlo leggermente estroflesso e carenatura a metà altezza, decorate con sottili incisioni parallele lungo la gola e la spalla o costolature oblique lungo la carenatura;

  • ciotole con l'orlo estroflesso e carenatura arrotondata, decorate con incisioni orizzontali, costolature oblique e verticali, solcature orizzontali sulla spalla;
  • colatoi a vaso carenato con orlo estroflesso spesso con ansa a nastro, fondo piatto o conico e zona superiore decorata con incisioni a fasci convergenti o solcature oblique. I colatoi o colini, utilizzati forse per un?attività domestica legata alla lavorazione del latte, sono più numerosi che in altri insediamenti coevi;
  • vasetti a corpo troncoconico con orlo estroflesso, gola profonda e forte carenatura, decorati con fasci di solcature lungo la spalla;
  • vasi pseudo situliformi con pareti spesse, orlo appena rivolto in fuori, gola poco accennata, orlo a tacche o cordonato, decorati con impressioni a polpastrello o a tacche;
  • vasetti fortemente carenati con decorazione plastica applicata;
  • Orci o dolii globosi con orlo molto estroflesso e cordonato, spesso decorati con coppelle sulla spalla; possono raggiungere il diametro di 77 cm;
  • coperchietto decorato a cordicella e vasetti miniaturistici;
  • rocchetti decorati con solcature, erano utilizzati nell'attività domestica della filatura;
  • frammenti di elementi fittili dello spessore di un mattone, decorati con coppelle, protuberanze e solcature concentriche realizzate con le dita. Il Fusco ed il De Marinis le avvicinano ad analoghi reperti rinvenuti in Francia e in Svizzera dove sono interpretati come alari di terracotta ad uso rituale.

I reperti bronzei non sono molto numerosi, ma sono abbastanza significativi:

  • punte e corpi di ardiglioni di fibule;
  • frammenti di spilloni;
  • una pinzetta di tipo tardo protovillanoviano, simile a quelle di Fontanella Mantovana ed Allumiere;
  • spillone con capocchia fusiforme, affine ad un esemplare del ripostiglio di Pfeffingen (Baden-Wüttemberg) del tipo Cà Morta;
  • una paletta rituale, con manico a tortiglione desinente ad anello, simile a quelle rinvenute nell'abitato di Badia Pavese.

I reperti ossei sono molto numerosi, si tratta di ossa animali e di corna di cervidi lavorate per ottenere manici di attrezzi, aghi, spilloni e dischetti forati con decorazioni incise che sono forse da interpretare come capocchie di spilloni.

I reperti faunistici hanno permesso di riconoscere dodici specie di animali.

Animali domestici:

  • 7 individui di Bos taurus (bue).
  • 5 individui di Sus palustris (maiale).
  • 2 individui di Capra hircus e Ovis aries (pecore o capre).
  • 1 individuo di Equus (cavallo).
  • 1 individuo di Canis familiaris (cane).

Animali selvatici:

  • 6 individui di Cervus elaphus (cervo).
  • 5 individui di Sus scrofa (cinghiale).
  • 1 individuo di Capreolus capreolus (capriolo).
  • 1 individuo di Ursus arctos (orso).
  • 1 individuo di Castor fiber (castoro).
  • 1 individuo di Bufo bufo (gufo).

Si è calcolato che il rendimento in carne era costituito per il 63% dalla carne degli animali domestici e per il 37% da quella degli animali selvatici.

l'analisi di tutti i dati sopra esposti ci consente di concludere che sul dosso Montecchio di Vidolasco, attorno al X secolo a.C., esisteva un insediamento domestico di popolazioni dedite alla caccia, all'allevamento del bestiame, alla lavorazione del latte, alla filatura e tessitura. Non si può escludere la presenza di un luogo di culto - vista la presenza della paletta rituale in bronzo e dei frammenti fittili chiamati da alcuni studiosi "corni di consacrazione" - ed è probabile che vi fosse anche una produzione locale di manufatti ceramici di uso domestico.

Negli anni successivi agli scavi si è tentato di individuare dei confronti per i reperti di Vidolasco, ma solo recentemente si è giunti ad un esauriente inquadramento dell'ambito culturale al quale appartengono.

I bronzi e la maggior parte della ceramica sembrano databili al periodo Ha B 1, tipo Cà Morta e cioè al X secolo a.C ed hanno una certa affinità con l'area paleoveneta, anche se non mancano frammenti ceramici più antichi assegnabili al XII-XI secolo a.C.

Gli abitati del Bronzo Finale in Lombardia sono ancora poco noti; si hanno infatti tracce di insediamento all'Isolino Virginia (CO), Prestino (CO), a Rondineto (CO), Badia Pavese (PV) ma l'insediamento più importante e pubblicato con più ampiezza è senza dubbio quello di Montecchio di Vidolasco.

Il Protogolasecca tipo Cà Morta è una fase culturale assegnabile al X secolo a.C (Bronzo Finale) e costituisce la fase formativa della cultura di Golasecca dell'età del Ferro. l'area occupata è molto vasta ed è compresa tra la regione subalpina dei laghi (dove si trova la necropoli della Cà Morta nei dintorni di Como), fino al Po (presso il quale vi è l'abitato di Badia Pavese), dal Ticino (con la necropoli della Malpensa), al Serio (con l'abitato di Vidolasco).

Dall'analisi dei corredi tombali sembra che la civiltà protogolasecchiana fosse già gerarchizzata, dato che corredi più ricchi distinguono uomini e donne di un certo rilievo sociale dagli altri individui. Gli oggetti rinvenuti nelle necropoli e negli abitati testimoniano la vitalità degli scambi commerciali che venivano effettuati tra la zona caratterizzata dalla cultura di Protogolasecca e le aree vicine: l'altopiano svizzero interessato dalla cultura dei Campi d'Urne, l'area paleoveneta, l'Europa centro-occidentale in genere. Le merci scambiate, per quanto ci è consentito verificare, sono merci di lusso come l'ambra o gli oggetti di bronzo.

La penetrazione romana nella Gallia Transpadana ebbe inizio nel III sec a.C e suscitò subito l’ostilità dei Galli Boi, Insubri e Cenomani. Dopo la conquista di Milano, i Romani si assicurarono basi di importanza strategica nella pianura padana, trasformando in ager publicus gran parte del territorio confiscato ai Galli e fondando nel 218 a.C. le due colonie di Cremona e Piacenza. I Romani ottennero la conquista definitiva della Transpadana soltanto nel 191 a.C. e, dopo aver stretto un foedus con i Cenomani, gli Insubri e gli Orobi, si dedicarono alla fondazione di nuove colonie, allo sviluppo dell’agricoltura ed allo sfruttamento delle risorse di questi nuovi territori.

Per tutto il I sec a.C. la Transpadana lottò per avere la parificazione giuridica con il resto dell’Italia.

Nell’ 89 a.C., con la Lex Pompeia de Gallia Citeriore, i nuclei abitati da gruppi etnici non romani ottennero il diritto latino, trasformandosi in colonie latine e divenendo centri amministrativi dei territori circostanti. Le terre confiscate furono redistribuite dopo lavori di bonifica e suddivisione agraria. È in questo periodo che il territorio bergamasco ha la sua prima centuriazione che però non tocca il territorio cremasco, ma si attesta sopra la linea delle risorgive. Con la Lex Roscia e la Lex Rubria del 49 a.C. i Transpadani conseguirono la parità politica e giuridica col resto dell’Italia, mentre nel 45 a.C. con la Lex Jiulia municipalis ottennero che le colonie latine della Transpadana fossero convertite in municipia civium romanorum. Nel 42 a.C. finalmente la Cisalpina entrò a far parte a tutti gli effetti dell’Italia, eliminando il comando militare che vi era stato istituito forse da Silla.

Sotto Augusto la Lombardia venne divisa tra la Regio XI (Transpadana) e la Regio X (Venetia), il confine era segnato dal corso del fiume Oglio. È forse in questa occasione che avvenne la seconda centuriazione del territorio bergamasco che comprendeva anche il Cremasco fino alla foce del Serio nell’Adda e lungo una linea che correva tra gli abitati di Offanengo, Romanengo e Ticengo segnando il confine con la centuriazione cremonese. Anche il territorio di Casale Cremasco e di Vidolasco conserva cospicue tracce della suddivisione agraria e della irregimentazione delle acque effettuata dagli agrimensori romani, come è possibile vedere nella Carta archeologica nella quale oltre alle tracce della centuriazione sono segnalate anche le località dalle quali provengono reperti archeologici.

Dall’analisi della Carta archeologica risulta evidente una sostanziale disparità tra il territorio di Casale e quello di Vidolasco; quest’ultimo infatti appare molto più ricco di testimonianze. Una spiegazione per questa anomalia può essere individuata nell’attività di ricercatore ed appassionato di archeologia svolta per parecchi anni da don Angelo Aschedamini, parroco di Vidolasco. Durante le sue indagini ha esplorato la campagna del suo paese segnalando molti siti archeologici ed inventariando migliaia di frammenti ceramici. Non possiamo escludere però che la notevole ricchezza di rinvenimenti effettuati nel Comune di Vidolasco segnali effettivamente la maggiore antichità ed importanza della presenza dell’uomo in questo territorio rispetto a quello di Casale.

Possiamo notare dalla Carta che i siti che hanno rivelato i reperti più antichi non sono concentrati in un unico luogo, ma sono sparsi per tutto il territorio di Vidolasco ed in genere hanno una continuità di vita che raggiunge l’Alto Medioevo. I reperti individuati ai campi Novelli, campo Gamba zocca, campo Chiericata, campo Faustino, campo Dosso dell’Asino coprono infatti un arco cronologico compreso tra il I secolo a.C e l’Alto Medioevo. Si deve trattare con ogni probabilità di insediamenti rurali e piccole ville rustiche sparse sul territorio per meglio coltivarlo e controllarlo.

Da recenti scavi, effettuati in Italia settentrionale, sono emerse informazioni più particolareggiate sulla tipologia degli edifici abitativi di ambito rurale. In primo luogo troviamo degli impianti di dimensioni contenute, monofamigliari, con poche stanze, dotati di apprestamenti lavorativi esterni. Una seconda tipologia è rappresentata da ville prettamente rustiche: edifici di ampiezza medio-grande, articolati in numerosi vani, intorno ad un cortile, con una netta prevalenza di ambienti lavorativi, contraddistinti da una conformazione chiusa, delimitata da muri continui. Vi è poi un’ultima tipologia: quella della villa urbano-rustica che è invece caratterizzata dalla presenza di un vero e proprio quartiere residenziale particolarmente ricco. Non molto diversi dovevano essere anche gli edifici rurali sparsi nel territorio di Vidolasco e Casale dei quali, per ora, solo la raccolta di superficie ci fornisce qualche notizia.

Dalle murature della chiesa dei Santi Faustino e Giovita, da un portone della casa Arpini lungo la via Maggiore e dall’area della pesa pubblica provengono alcuni frammenti scultorei ed architettonici in marmo databili all’età imperiale. Si tratta di un architrave, un frammento di lesena ionica, un frammento di fregio o architrave scolpito a bassorilievo con motivi vegetali inseriti in una cornice, un tronco di statua maschile priva di testa, braccia e gambe ed una testa. La concentrazione dei reperti in un’unica località suggerisce l’ipotesi che essi possano provenire da una zona molto prossima alla chiesa ed appartengano ad un edificio abitativo di una certa importanza, ma non è escluso che si possa trattare anche di un sacello di culto oppure di un monumento funerario. Il rinvenimento è comunque un unicum per il territorio cremasco, infatti solo nella grande villa tardoantica di Palazzo Pignano sono stati portati alla luce materiali architettonici e statue in marmo, anche se molto più piccole di quelle di Vidolasco. Sulla base di tali ritrovamenti possiamo ipotizzare che in un periodo compreso tra il I ed il II secolo d.C, nell’area della vecchia chiesa in centro a Vidolasco (lungo la via Maggiore che corrisponde ad un decumano della centuriazione) vi fosse una ricca villa rustica dotata di un sacello privato oppure un sepolcro monumentale situato nei pressi del decumano corrispondente alla strada principale in direzione di Camisano, altro centro di notevole importanza in età romana.

Tra III e IV secolo si assiste ad una progressiva crisi che investe il mondo agricolo e quindi anche le sue strutture materiali. Si diffonde la concentrazione delle terre da parte dei possessores anche nella pianura padana senza per altro che vi fosse una sistematica affermazione dei latifundia né una scomparsa delle medie e piccole proprietà; si accentua la formazione di impianti produttivi artigianali specializzati forse collegati ad un commercio a medio raggio

Nell’età tardoantica in territorio cremasco assistiamo ad una grande diffusione di siti abitati e ad una notevole differenziazione tipologica, almeno in base alle frammentarie notizie giunteci dai ritrovamenti archeologici in gran parte occasionali e solo raramente oggetto di scavi sistematici.

Tra III e IV secolo a Vidolasco agli insediamenti nei campi Novelli, campo Gamba zocca, campo Chiericata, campo Faustino e campo Dosso dell’Asino se ne aggiungono di nuovi, ad esempio il campo Campasso.

Al IV e V secolo d.C appartengono i reperti individuati a Vidolasco nel campo Brolo del Torchio, campo Torrazza, campo Ghislena, campo Termen e torre della Colombera presso la cascina dei fratelli Valerani a Montecchio.

Anche i due rinvenimenti testimoniati a Casale presso la vecchia chiesa di Santo Stefano e nel campo Chioso dell’Albera appartengono all’età tardoantica: si tratta di due nuclei di tombe riguardo alle quali purtroppo abbiamo scarse notizie.

Come si può quindi notare, a Vidolasco ed a Casale l’insediamento è ancora di tipo sparso durante l’età romana, con numerosi siti distribuiti nella campagna.

Tra V e VI sec d.C. la situazione del popolamento rurale accentua ulteriormente i suoi caratteri involutivi avviandosi ad una totale trasformazione. Tra i ruderi degli edifici rustici o delle stesse grandi ville compaiono sepolcreti altomedievali, essi sono la spia di una nuova tipologia insediativa che lascia scarse tracce di sé, poiché gli edifici sono costruiti per la maggior parte in materiali deperibili e riutilizzando le strutture superstiti d’età romana.

Nonostante la difficoltà d’individuazione degli insediamenti altomedievali, è possibile affermare – grazie anche all’archeologia – che il popolamento appare distribuito in maniera piuttosto discontinua sul territorio. Possiamo trovare sia piccoli insediamenti che sopravvissero per qualche tempo tra i ruderi degli edifici romani, sia nuovi insediamenti costruiti ex novo, oppure abitati aggregatisi nell’area di qualche grande villa.

L’abitato sparso, che sembra prevalente in questo periodo, offre l’immagine di un paesaggio agrario anch’esso sparso e frazionato. Ogni podere sembra infatti tendere all’autosufficienza e quindi ognuno possiede, oltre alla casa ed ai campi coltivati a cereali, anche vigne, prati per il pascolo, bosco, orti e colture tessili. La stessa presenza di curtes con i loro contratti di livello contribuiscono a darci questa impressione.

Gli indizi per una frequentazione del territorio cremasco in età medievale hanno avuto un incremento notevole negli ultimi due decenni grazie anche all’attenzione dedicata loro nelle ultime campagne di scavo sul territorio. A Vidolasco ed a Casale sono testimoniati rinvenimenti di frammenti ceramici databili a questo periodo ai campo Novelli, in località Gambazocca, a Montecchio presso la cava di ghiaia, nei campi Chiericata, Dosso dell’Asino, Campasso e Chiosa d’Albera. Come si può notare dalla Carta archeologica, a Vidolasco e Casale l’insediamento prosegue in alcune località disseminate sul territorio ed in prossimità dell’attuale centro abitato di Vidolasco, con una continuità di vita che dal I secolo d.C raggiunge il Medioevo.

Oltre ai dati offerti dai rinvenimenti archeologici, possiamo avvalerci anche delle informazioni forniteci dalle fonti scritte, abbastanza numerose ed interessanti per il territorio di Casale e Vidolasco. Tutti i documenti citati di seguito sono riportati in forma integrale ed ordinati cronologicamente nell’Appendice II, posta al termine del capitolo.

Il nome di Vidolasco appare per la prima volta in un documento datato 1° settembre 949 in cui il vescovo di Cremona Dagiberto permuta degli edifici, dei terreni ed una quota del porto sull’Adda in Cavriate con un castello a Bozzolo sull’Oglio di proprietà del prete Lupo figlio di Gisemperto. Tra i testimoni presenti alla stesura dell’atto vi è anche Ingeramo figlio di Arnidio de vico Vidolasco. L’Aschedamini collega Ingheramo figlio di Arnidio con un Ariberto di Sergnano figlio del fu Ingheramo, presente in un documento del 948 creando tra i due un rapporto di parentela. Questa ipotesi non è sostenibile, perché nel documento del 948 Ariberto è detto figlio del fu Ingheramo e quindi quest’ultimo doveva già essere morto, mentre un anno dopo nel documento del 949 Ingheramo de vico Vidolasco è ancora vivo tanto che può firmare l’atto di permuta. Si tratta quindi di un semplice caso di omonimia ed i due personaggi non possono essere messi in connessione.

Il paese di Vidolasco compare di nuovo in un documento, redatto in vico Camisiano nel 960 In esso il vescovo di Cremona Dagiberto permuta delle terre con il conte di Lecco Atto figlio di Vuiberto. Il vescovo concede ad Atto un castello e tutti i possessi appartenenti alla basilica di San Pietro di Camisano, situati nei territori di Camisano e di Vidolasco oltre a terreni appartenenti alla basilica di Sant'Alessandro di Castel Gabbiano posti nel paese stesso. In cambio ottiene duemila iugeri di terra, un castello e cappelle pertinenti alla corte di Sesto presso Cremona. Le proprietà della chiesa di San Pietro di Camisano situate a Vidolasco sono costituite da sei appezzamenti di terreno per un totale di circa 18 ettari; due si trovano in località Spraganica, due vengono denominati Linalia e due si trovano nei pressi del Serio Morto. Non è stato possibile trovare un confronto tra i nomi delle località citate nel documento ed i toponimi attuali.

Il paese di Casale compare per la prima volta in un documento datato 19 giugno 978, nel quale Odelrico vescovo di Cremona permuta dei terreni per un totale di ventisei tavole con altri terreni in Antegnate e Casale per un totale di ventotto tavole di proprietà di Teuderisio figlio di Gunsperto. Purtroppo il documento è lacunoso e non è possibile ricavare nessuna informazione sulla localizzazione dei terreni oggetto della permuta.

Nell’ottobre 989 troviamo nuovamente un Walperto figlio del fu Walperto de loco Vidolasco che pone la sua firma in calce ad un atto redatto a Monasterolo del Castello con il quale Oberto del fu conte Apone da Mozzo dona alla chiesa di Sant'Alessandro in Bergamo un appezzamento di terreno con edifici a Lallio. Le supposizioni avanzate dall’Aschedamini riguardo l’identità di Walperto non possono essere confermate, data la diffusione e la frequenza del nome Walperto nei documenti.

L’11 marzo 993 a Genivolta viene redatto un placito presieduto da Giselberto conte di palazzo e del comitato di Bergamo in cui il vescovo di Cremona Ulderico permuta delle terre di proprietà delle chiese di Santi Faustino e Giovita di Vidolasco e San Martino di Sergnano, soggette al vescovato di Parma, con la metà del castello di Acquanegra e numerosi terreni nei suoi pressi di proprietà del prete Arnolfo figlio di Alessandro de loco Arie. I terreni sono coltivati a vite e confinano con la via principale e con le proprietà della chiesa di San Faustino. Uno di questi poderi è situato prope castro ipsius loco. Abbiamo quindi la prima attestazione di un castrum (postazione fortificata) nel territorio di Vidolasco. È difficile individuare il luogo preciso di questo insediamento; gli unici due toponimi significativi a questo riguardo sono quelli di due tereni: il Fortino ed il campo Torrazza, l’uno ad oriente e l’altro ad occidente del paese. Solo delle indagini archeologiche mirate potrebbero chiarire definitivamente il problema.

Il 20 gennaio 1034 in un atto redatto a Fornovo Adalberto levita della chiesa di Bergamo e Ottone figli di Rotepaldo di Gabbiano cedono al vescovo di Cremona Ubaldo tutti i loro possedimenti nei paesi di Publica, Trezzolasco e Vidolasco, già apparteneti alla Diocesi di Cremona e facenti parte del beneficio clericale di Enrico figlio di Tebaldo vicario vescovile di Fornovo. La pieve di Fornovo San Giovanni è nominata per la prima volta in un documento dell’842 nel quale il conte Rutcher dona al vescovo di Cremona la corte di Ruberino in comitatu scilicet bergomense, prope plebem que dicitur Forum Novum. Il testamento è contestato dai conti bergamaschi e confermato per due volte da re Lotario, la seconda nell’861. Nel 966 il vescovo di Cremona Liutprando permuta un campo tenente latus castro antico juris plebis S. Johannis con terre di Arialdo d’Antegnate, il documento specifica che plebem istam cum omni sua perinentia pertinere videtur de sub regimine et potestate ipsius episcopii Sancte Cremonensis Ecclesie. Dalla pieve di Fornovo dipendevano l’ecclesia de Terzolasco (Trezzolasco), l’ecclesia S. Ambrosii de Altofasso l’ecclesia de Sereniano (Sergnano), l’ecclesia de Albinengo (abitato oggi scomparso a 2 chilometri a sud di Sergnano), l’ecclesia de Pianengo, l’ecclesia de Vayrano (Vairano), l’ecclesia S. Petri in Batidicio (San Pietro in Crema), l’ecclesia de Camissano (Camisano), l’ecclesia de Casale, l’ecclesia de Vidolascho (Vidolasco), l’ecclesia S. Alexandri de Gabiano, l’ecclesia S. Marie de Gabiano (Castel Gabbiano).

In un documento datato 2 novembre 1065 troviamo citato per la seconda volta il castrum di Vidolasco. In questo atto Alberico del fu Ottone investe il vescovo di Cremona Ubaldo di tutti i suoi terreni ed edifici posti in Gabbiano e di due terzi di quelli fuori e dentro i castelli di Vidolasco e Trezzolasco con la clausola che gli stessi diverranno di proprietà dell’Episcopio nel caso che egli muoia senza eredi maschi. È possibile che questo Alberico sia figlio di quell’Ottone che nel 1034 aveva già ceduto la sua parte di beni in Publica, Trezzolasco e Vidolasco al vescovo di Cremona. Ora il figlio completa la donazione paterna aggiungendo Gabbiano e due terzi dei beni siti in Vidolasco e Trezzolasco.

Lo stesso vescovo Ubaldo di Cremona è protagonista di un altro documento datato all’anno 1066, nel quale il re Enrico IV conferma al presule cremonese i beni ed i diritti vecchi e nuovi su vari paesi del Cremonese e del Cremasco, tra i quali figura anche Vidolasco. La donazione viene confermata anche da Papa Alessandro II con un atto datato 30 ottobre 1066.

Troviamo di nuovo nominato Vidolasco in un documento datato all’ottobre 1078 nel quale il prete Alberto del fu Rotepaldo dona alla chiesa cremonese tutti i suoi beni posti in Gabbiano, Vidolasco, Trezzolasco e Pubblica, tra i quali vi sono anche dei terreni a bosco ed arati, prati e vigne.

Nel XII secolo si sente l’esigenza di riconfermare tutti i privilegi ed i possessi acquisiti dalla Chiesa cremonese grazie all’investitura effettuata da Enrico IV; il Papa Callisto II procede quindi alla conferma dei benefici e dei possedimenti, tra i quali figura anche la chiesa di Vidolasco, con un documento datato 1 febbraio 1124, di nuovo confermati sessantatré anni dopo da Papa Gregorio VIII con un documento datato 2 novembre 1187.

Alla fine del XII secolo dopo la distruzione di Crema ad opera del Barbarossa, Vidolasco e Casale sono associati per la prima volta in un documento datato 5 marzo 1192, nel quale l’imperatore Enrico VI concede ai Cremonesi tutti i beni e i diritti che l’Impero aveva su Crema e sui luoghi circostanti e tutti i beni e i diritti che i Cremonesi possedevano nell’Insula Fulcheria precedentemente alla ricostruzione di Crema, confermando una precedente concessione di Federico I. Il Cremasco viene suddiviso in quattro zone: ultra Serium Insula Fulcheria, citra Serium, e in Vaure. Della zona citra Serium (al di qua del Serio rispetto a Cremona) fanno parte: Gabbiano, Vidolasco, Casale, Runcengum, Camisano, Bottaiano, Offanengo Maggiore e Minore, Izano, Soave, Madignano.

Un atto notarile datato al 1198 e riportato dal Terni, ci informa che una notevole quantità di terra viene venduta da un possidente di Vidolasco ad un nobile abitante di Crema. Giovanni Greppi figlio di un nobile Benzone di Crema compra da Rainerio Preandreis di Vidolasco tutte le sue proprietà un tempo del defunto Giovanni de marchisio Perandree situate nel territorio di Vidolasco, dal Serio Morto fino a Capralba.

Nel XIII secolo vi è un documento che riporta per la prima volta il nome di un sacerdote addetto alla cura d’anime della chiesa di Vidolasco. In un atto datato 2 maggio 1211, Sicardo vescovo di Cremona concede alla chiesa di San Giovanni di Vidalengo il diritto di riscuotere le decime di un appezzamento di terreni nello stesso paese di Vidalengo. Uno dei testimoni che firmano l’atto è Prevosto, clericus (sacerdote) di Vidolasco. Dopo circa dieci anni abbiamo anche la prima menzione di un abitante di Vidolasco che ha fatto fortuna ed ora suo figlio gestisce un mulino a Crema. Un atto notarile datato 6 settembre 1221 attesta infatti la presenza in Crema del mugnaio Nicola della vicinia di Ponte Furio, figlio del fu Monaco di Vidolasco e di sua moglie Imilda figlia del fu Giovanni Pisoni.

La chiesa dei Santi Faustino e Giovita di Vidolasco ritorna nei documenti del XIII secolo con un atto datato 2 aprile 1272 nel quale il vescovo di Cremona permuta delle terre con Giovanni Sicco di Caravaggio e Alberto Bafo. A proposito di un appezzamento posto in Mozzanica, si dice infatti che confina con un terreno di proprietà della chiesa di Vidolasco.

l Terni nella sua Storia di Crema, cita un elenco di famiglie che nel 1332 erano tra le più importanti del Cremasco; tra di esse vi sono anche i Conti di Casale. Non possiamo stabilire con precisione chi fossero questi conti di Casale, ma un documento datato 16 ottobre 1390 relativo ad una compravendita di terreni può aiutarci ad aggiungere qualche tassello alla storia di Casale. In questo atto compaiono infatti per la prima volta Bertolino figlio di Antonio detto Robinato dei Conti di Camisano, ma habitatores loci de Casale e Maffeo soprannominato Banidio figlio di Imerio Conte di Camisano, prefessante la legge longobarda. Nessuna altra notizia ci viene fornita riguardo a questi personaggi; sia il Benvenuti che lo Zavaglio li chiamano un po’ troppo sbrigativamente Conti di Casale, basandosi sulla notizia del Terni che ricorda la presenza a Crema, verso la metà del XIV secolo, di una famiglia di Conti di Casale. Non possiamo però dire se i due personaggi chiamati nel documento con l’appellativo di Conti di Camisano, ma residenti a Casale siano gli stesso Conti di Casale ricordati dal Terni e nemmeno che facciano parte della stessa famiglia. Lo Zavaglio, senza peraltro citare la sua fonte, afferma che gli Umiliati di Casale avrebbero riadattato la dimora dei Conti di Casale per utilizzarla come convento.

Del 1398 è forse l’unica citazione conosciuta di Montecchio di Vidolasco. Nel pieno delle lotte tra Guelfi e Ghibellini, questi ultimi riescono a catturare ed a bandire un buon numero di avversari tra i quali figura anche un Pacino di Montecchio con suo figlio.

Nella prima metà del XV secolo a Casale vi è un convento degli Umiliati dipendente dalla Casa madre di Santa Maria di Brera a Milano.

Il movimento umiliato nacque in Italia nella seconda metà del XII secolo quando rinnovati ideali di vita apostolica e di povertà evangelica rinnovarono la cristianità occidentale. In questo stesso periodo ebbero le loro origini anche altre grandi famiglie religiose come i Francescani ed i Domenicani che, pur essendo fortemente innovative e proponendo uno stile di vita radicalmente evangelico, furono considerate fin dall’inizio dei movimenti ortodossi.

Gli Umiliati invece, all’inizio della loro storia, vennero scomunicati da Papa Lucio III con la Bolla Ad abolendam del 4 novembre 1184 ed accomunati ad altri eretici come i Patarini, i Catari, gli Arnaldisti ed i Poveri di Lione.

L’origine di questo movimento era alquanto insolita per l’epoca, infatti nacque per iniziativa di laici che, mossi da un forte desiderio di vivere secondo il modello evangelico, vivevano insieme con le loro famiglie, lavorando ed annunciando la Buona Novella nei luoghi di lavoro. In seguito si costituirono e differenziarono in tre ordini: il primo formato da chierici, il secondo costituito da una comunità mista di fratres e sorores ed un terzo composto da laici con le loro famiglie.

Solo nel 1201 Papa Innocenzo III approvò con la Bolla Omnis Boni Principum la regola di vita degli Umiliati, conservando quelle che erano le loro caratteristiche più innovative: la distinzione in tre ordini, le attività artigianali ed il loro coinvolgimento nell’amministrazione delle città che ospitavano le loro Case

Le fonti riguardanti le prime comunità di Umiliati ricordano infatti che essi vivevano del frutto del proprio lavoro manuale che non si limitava alla sola coltivazione della terra. Il lavoro agricolo rivestiva un’importanza non secondaria tra le attività degli Umiliati fin dall’inizio, infatti erano esentati dal pagamento delle decime sui frutti dell’agricoltura e dell’allevamento praticati dalle comunità del primo e del secondo ordine. La principale attività era però fino al terzo decennio del XIV secolo la manifattura dei panni di lana, oltre al commercio ed al possesso e amministrazione di mulini ed altre installazioni meccaniche. Gli Umiliati inoltre, si impegnarono anche nel mondo degli affari e del denaro con operazioni di natura finanziaria e creditizia. Questa attività non aveva però fini di lucro, ma motivazioni caritativo assistenziali. In un periodo storico in cui l’usura era considerato uno dei mali sociali più grandi, gli Umiliati stipulavano contratti con persone indebitate, acquistavano beni immobili a prezzo di mercato senza approfittare dello stato di necessità di chi non avrebbe potuto avere denaro se non rivolgendosi agli usurai, investivano il denaro a loro affidato da orfani e vedove garantendo comunque l’utile promesso e sobbarcandosi parte delle perdite.

Gli Umiliati, grazie alla fiducia di cui godettero, rivestirono spesso delle cariche pubbliche: furono sovrintendenti ai lavori pubblici, dazieri, canevari (una sorta di ministri delle finanze e del tesoro), ambasciatori, massari, ufficio che nel XIII secolo fu rivestito da un appartenete alla famiglia Umiliata nelle città di Alessandria, Brescia, Como, Cremona, Novara, Firenze, Parma e Siena. Ebbero un ruolo importante anche nel settore giudiziario, furono infatti fratres maleficiorum e massarii bandezatorum. Nel primo caso dovevano accogliere le accuse, infliggere le multe, ricevere il denaro che accompagnava le imputazioni portate in tribunale e trasmettere le entrate alla cassa centrale. Nel secondo i frati affiancavano il giudice che stabiliva i bandi e presiedevano all’amministrazione dei beni confiscati alle persone bandite.

Possediamo solo tre documenti riguardanti la casa degli Umiliati di Casale: si tratta di tre delibere prese dal Consiglio Generale di Crema nel 1457. La prima riguarda la richiesta, in seguito accolta, fatta al Consiglio da parte del “P. Abate degli Umiliati di S. Maria di Casale per ottenere dalla città un sito lungo la Roggia Crema in città per fabbricarvi un Molino“. La richiesta venne accolta a condizione che la costruzione del mulino non impedisse il transito delle barche lungo la roggia Crema che, in comunicazione con il Serio, costituiva una via di transito importante per i traffici commerciali tra la città e Venezia. Il mulino degli Umiliati si trovava a valle del ponte che univa Borgo San Pietro e San Benedetto, sulla sponda sinistra della roggia Crema; in origine azionava quattro ruote, era dotato di depositi e ricoveri costruiti su di un’area già in possesso degli Umiliati di San Martino in Borgo San Pietro.

La seconda, datata 3 maggio 1457, riguarda la nomina del Priore della Commenda di San Pietro di Madignano che era rimasta vacante per la rinuncia - imposta dalla Serenissima - del precedente Commendatario Mons. Giovanni Battista Arcidiaconi. Il Consiglio Generale di Crema propose al Doge i nomi di tre sacerdoti cremaschi perché potesse sottoporli all’attenzione del Papa Callisto III: il primo di questi tre ecclesiastici era Padre Antonio Morari Abate degli Umiliati di Santa Maria di Casale. Grazie al favore di cui godeva presso il Consiglio cittadino Padre Morari ottenne quindi la Commenda di Madignano.

Nella terza datata al novembre 1457, lo stesso Padre Morari si offrì per portare a Venezia le congratulazioni e gli omaggi della città, al Doge Pasquale Malipiero da poco eletto. Il Consiglio Generale di Crema incaricò quindi Padre Antonio Morari della missione diplomatica che venne conclusa positivamente.

Come possiamo vedere dalle sia pur scarne notizie contenute nei documenti, gli Umiliati di Casale e soprattutto il loro Abate, erano tenuti in grande considerazione dai membri del Consiglio Generale della città, tanto da affidargli una missione diplomatica presso il Doge.

Il Convento degli Umiliati di Casale, del quale sopravvissero alcune tracce fino alla prima metà del XX secolo, si trovava con l’annessa chiesa dedicata a Santa Maria nei pressi della chiesa parrocchiale del paese. Nella chiesa degli Umiliati si venerava una statua della Vergine col Bambino molto cara ai frati ed agli abitanti di Casale.

Dopo la soppressione dell’Ordine per decreto di Papa Pio V con la Bolla Quemadmodum del 7 febbraio 1571 il Convento venne chiuso, l’immagine della Vergine venne spostata nella chiesa parrocchiale e la chiesa di Santa Maria (fra il 1583 ed il 1717) venne incorporata nella stessa chiesa parrocchiale di Santo Stefano

Parte delle proprietà immobiliari, circa 1500 pertiche di terreno, vennero vendute nel 1571 al nobile Giovanni Matteo Obizzi, Provveditore di Crema ed in seguito passarono a suo figlio Alessandro che nel 1619 faceva parte del Consiglio Generale della città.

Nel 1716 gli Obizzi, che oltre a Casale possedevano anche numerosi beni a Bottaiano e alle cascine Zurlesche, ebbero il titolo di Marchesi da Francesco Farnese Duca di Parma.

Alla fine del XVIII secolo gli Obizzi, abbandonata la villa Obizza di Bottaiano, costruirono un palazzo a Casale, sulla riva del Serio nell’area del soppresso convento degli Umiliati: il Palazzo Monticelli-Obizzi.

La Marchesa Maria Obizzi, ultima della sua famiglia, sposò all’inizio del XIX secolo un Nobile Monticelli di Crema e gli portò in dote l’intero patrimonio comprendente anche Casale del quale era rimasta unica erede dopo la morte, avvenuta nel 1807, del fratello Mons. Carlo Antonio dei Marchesi Obizzi Vicario Capitolare di Crema.

L’unica figlia dei coniugi Monticelli-Obizzi sposò il conte Paolo Tarsis di Roma, dal quale ebbe un’unica figlia, la contessa Giulia Tarsis che sposò il conte Senatore Alfonso Vimercati Sanseverino Tadini Prefetto di Napoli. Alla morte del conte le proprietà di famiglia vennero divise: alla moglie la contessa Giulia Tarsis la tenuta di Casale, il podere Gavazzo al figlio Roberto Vimercati Sanseverino Tadini, alla figlia Laura Vimercati Sanseverino Tadini moglie del Marchese Gaspare Corti il podere Zurlesche.

La tenuta di Casale venne venduta in seguito ai fratelli Taddei di Casale che a loro volta la cedettero alla Ditta Galbani di Melzo.

Oltre agli Obizzi, anche i Nobili Bremaschi ebbero proprietà ed un palazzo in Casale a partire dalla prima metà del XVII secolo; essi acquistarono parte dei beni posseduti dagli Umiliati. Della famiglia conosciamo dai documenti un Nobile Orazio Bremaschi che navigò come nobile di poppa sulla nave capitana dell’Ammiraglio Frà Giovanni Battista Naro Priore d’Inghilterra, il quale lo congedò a Civitavecchia il 2 ottobre 1631 con “onorevole attestato per i servizi prestati” Tra i componenti della famiglia Bremaschi che abitarono a Casale conosciamo il Nobile Francesco che nel 1654 fece costruire a proprie spese nella vecchia chiesa di Santo Stefano di Casale un altare dedicato a Sant'Antonio da Padova e ne affidò la pala principale al Barbelli.

Alla fine del XVIII secolo i Bremaschi si estinsero e le loro proprietà vennero rilevate dai Conti Oldi.

Nel 1805 il proprietario della villa Bremaschi-Oldi è il conte Andrea Oldi figlio di Antonio; quello stesso anno il conte morì e le proprietà furono divise tra i figli Giuseppe, Ferrante, Valentino, Leonida ed una sorella.

Il 20 aprile 1822, in seguito alla morte del conte Giuseppe Oldi, i suoi beni furono ereditati dai figli Ferrante, Casimiro, Adamo e Timoteo che essendo ancora minorenni restarono sotto la tutela della madre Giuseppa Dombroschi. Nel 1828 i beni vennero divisi e la villa con 408 pertiche di terreno e quattro case coloniche passò al conte Timoteo Oldi. Non sappiamo se il conte Timoteo sia morto, è certo comunque che il 12 agosto 1871 la villa divenne proprietà del nipote il conte Ferrante, figlio di Adamo che la vendette il 16 gennaio 1873 a Giovanni De Tomasi.

Il 16 ottobre 1886 la villa venne acquistata dal Nobile Hermes Albergoni figlio di Fortunato; Il 26 aprile 1914 morì il Nobile Fortunato Albergoni e la villa di villeggiatura di Casale venne suddivisa tra due dei tre figli, Azzo e Napo ed una cugina Ginevra Albergoni; il figlio Hermes non è ricordato nel testamento. Il 6 dicembre 1926 gli Albergoni vendettero la villa al dott. Paolo Agnesi che la abitò vino alla morte (5 giugno 1938). Gli Agnesi rimasero proprietari della villa fino alla fine degli anni Settanta quando il Comune la espropriò e, dopo un accurato restauro, ne fece la propria sede.

Due sono le principali famiglie nobili che ebbero beni ed un palazzo a Vidolasco: i Vimercati ed i Tadini.

Non sappiamo quando i Vimercati entrarono in possesso delle proprietà di Vidolasco, erano comunque presenti in paese a partire dalla seconda metà del XVI secolo. Tra i componenti della famiglia che risiedettero a Vidolasco senza dubbio il più illustre fu Ludovico II Vimercati Sanseverino, figlio di Sermone Vimercati e di Ippolita Sanseverino; egli militò valorosamente al servizio della Serenissima Repubblica di Venezia e morì a Cipro nel 1570 durante la guerra contro i Turchi, mentre era luogotenente colonnello del generale Girolamo Zani. Fu sepolto nel duomo di Nicosia nell’isola di Cipro e sulla sua tomba venne posta un’epigrafe commemorativa. I Vimercati Sanseverino mantennero la proprietà del palazzo in Vidolasco fino al XIX secolo.

I Tadini ebbero i primi contatti con il territorio cremasco con Michele Tadini di Caravaggio, medico condotto del Comune di Martinengo con obbligo di residenza dal maggio del 1434; egli acquistò le prime proprietà in Vidolasco agli inizi del XV secolo, forse nel 1439, quando ottenne la cittadinanza cremasca.

Michele ebbe tre figli: Felice, Clemente e Stefano. I primi due continuarono ad esercitare la professione paterna a Martinengo, ma non dimenticarono i loro possedimenti in Vidolasco; Clemente e Felice Tadini riedificarono infatti la chiesa parrocchiale del paese e la dotarono di suppellettili sacre, tanto che nel 1482 ne ottennero, grazie ad una Bolla del Papa Sisto IV, il privilegio dello “jus patronato” cioè il diritto di proporre un sacerdote a loro gradito per l’ufficio di parroco.

 Il più famoso tra i Tadini è sicuramente uno dei cinque figli di Clemente, Gabriele, nato a Martinengo tra il 1475 ed il 1480. Studiò ingegneria militare a Bergamo presso un ingegnere francese e si esercitò nell’uso delle armi; entrato nell’esercito della Serenissima ed avendovi militato per diversi anni, venne promosso colonnello ed inviato nell’isola di Candia per procedere alla fortificazione dell’isola.

Nel 1522 Solimano imperatore dei Turchi pose d’assedio l’isola di Rodi, in quel tempo sede dell’Ordine monastico-militare dei Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme. I Cavalieri inviarono un ambasciatore al governatore veneziano di Candia per ottenere delle truppe o per lo meno “volesse esser contento di prestargli e concedere il Martinengo, per potersi valere delle sue virtù e dell’ingegno suo in quel bisogno”. Il governatore rifiutò entrambe le proposte perché Venezia aveva stipulato un accordo di pace con i Turchi al fine di salvaguardare gli interessi commerciali veneziani in Oriente. Gabriele Tadini però non obbedì agli ordini dei propri superiori e fuggì a Rodi, dove chiese di entrare nell’Ordine dei Cavalieri di San Giovanni. Il Gran Maestro Philippe Villiers de L’Isle-Adam, dopo avergli concesso l’abito e la Gran Croce, lo pose a capo delle operazioni di difesa. Gabriele Tadini inventò in quella occasione la guerra di mina, utilizzata ancora quattro secoli dopo nella Prima Guerra Mondiale. Durante l’assedio, venne colpito da un’archibugiata al volto; la grave ferita lo tenne lontano dagli spalti per un mese e mezzo e gli costò la perdita dell’occhio destro, come si può vedere anche nel ritratto che gli fece il Tiziano alcuni anni dopo. Rodi resistette all’assedio per sei mesi nonostante la disparità di forze in campo (le truppe turche ammontavano a circa 200.000 uomini mentre l’esercito dei Cavalieri era costituito da 600 effettivi e 5000 mercenari), ma alla fine i Cavalieri dovettero capitolare e lasciare ai Turchi la sovranità dell’isola. Frà Gabriele Tadini, tornato in Italia, venne accolto con grandi onori ed ottenne il Priorato di Pisa e nel 1525 il Priorato di Barletta, il migliore ed il più ricco possedimento dei Cavalieri di San Giovanni in Italia. Nel 1530 i Cavalieri ottennero il possesso dell’isola di Malta dall’imperatore di Spagna Carlo V, anche grazie all’intervento di Frà Gabriele Tadini che dal 1523 era diventato suo generale delle artiglierie con il favoloso stipendio di 4000 ducati d’oro. Nel 1527, durante la difesa di Genova, Gabriele cadde prigioniero, mentre il fratello Girolamo ed il cugino Fabrizio morirono e secondo lo Sforza Benvenuti furono sepolti in San Domenico a Crema. Liberato alla fine del 1528, Gabriele si riunì alle forze di Carlo V e nel 1529 partecipò alla difesa di Vienna contro i Turchi di Solimano. Nel 1533, ormai stanco ed ammalato si ritira nei possessi della famiglia Tadini, presso il nipote ed erede Camillo. Il periodo di tranquillità durò poco, nell’ottobre del 1534 Gabriele venne di nuovo chiamato in servizio attivo dall’imperatore Carlo V e dalla Serenissima; si prepara una nuova offensiva contro i Turchi di Solimano per conquistare Tunisi. Dopo quest’ultima vittoria Gabriele si ritirò a Venezia dove morì il 4 giugno 1543; fu sepolto nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo in Venezia, lasciò erede dei suoi beni il nipote Camillo.

La casata dei Tadini di Vidolasco ebbe nuovo splendore nella seconda metà del XVI secolo, quando il pronipote di Michele Tadini, Camillo figlio di Gerolamo e Lucia Zurla, trasformò il palazzo di famiglia in una villa rinascimentale ed acquistò notevoli possedimenti a Crema ed a Camisano anche grazie all’eredità dello zio Gabriele.

I possedimenti di Vidolasco restarono infeudati alla famiglia per molti secoli, ne abbiamo una rappresentazione in una carta inedita datata 1651 nella quale si può vedere l’estensione del feudo dei conti Tadini che comprendeva, oltre a Vidolasco e a Casale, anche Sergnano e Trezzolasco.

L’ultimo della famiglia fu il conte Luigi, nato nel 1751; era un figlio illegittimo, ma ereditò nome, titolo e possedimenti forse perché era l’unico maschio; Gian Battista Terni infatti scrive che “nell’anno 1780 il signor Luigi Tadini il bastardo fu aggregato al nostro Consiglio per grazia”. Lo Sforza Benvenuti ce ne ha lasciato un ritratto alquanto colorito: “Ricco gentiluomo, d’ingegno versatile ed operoso. Carattere vivacissimo, bizzarro, irrequieto, lo agitava continuamente una vanità superlativa. Era uno di quegli uomini che si scalmanano per far parlar di sé; che vorrebbero si occupassero tutti della loro persona, ed avessero sempre il turibolo nelle mani per incensarli: uomini che amano la teatralità delle ovazioni da piazza, si presumono capaci di tutto e senza avere studiato molto diventano oratori, magistrati, poeti, guerrieri a norma delle occasioni e dei tempi che corrono”. Il teatro ed il mondo dello spettacolo in genere erano la sua grande passione; nel luglio del 1783 organizzò a Crema la Corsa degli Asini; nel 1784 annunciò alla cittadinanza che avrebbe volato in un pallone areostatico, ma l’impresa non gli riuscì perché il pallone non era stato progettato correttamente, la folla accorsa per assistere all’evento lo prese in giro a tal punto che il conte Tadini dovette fuggire a Venezia per alcuni mesi per sottrarsi alle beffe dei Cremaschi. Tornato a Crema, nel 1785 allestì un teatrino dove cantò da primo attore in un’opera buffa.

Nel 1798 le truppe repubblicane francesi di Napoleone entrarono a Milano, così l’anno successivo il conte Luigi Tadini rinunciò al titolo nobiliare e contribuì alla costituzione della Repubblica di Crema; egli fece inoltre parte del Corpo Legislativo del Regno Italico.

Nel 1799 morì a venticinque anni l’unico figlio, Faustino, mentre sovrintendeva alla demolizione di un muro nella villa di Lovere.

Quattro anni dopo scrisse il Ricciardetto Ammogliato poema comico in dodici canti ed in seste rimee nel 1818 i Salmi, canti ed inni cristiani che fece musicare ai maestri Gazzaniga e Pavesi come al solito tagliente e salace il giudizio dello Sforza Benvenuti sull’arte poetica del conte: “Versi e rime sapeva accozzare con facilità: mancava quella peregrina venustà nella forma e nei concetti che distingue il poeta dal verseggiatore. Ma a lui bastava il vanto d’essersi arrampicato sulle cime del Parnaso, non curandosi se invece delle rose sovente vi coglieva grattaculi”.

Nel 1815, con il ritorno degli Austriaci, Luigi Tadini da repubblicano era ritornato ad essere aristocratico e monarchico. In occasione della visita dell’imperatore Francesco I alla città di Crema, il conte incaricò il sacerdote bergamasco Bartolomeo Bettoni di comporre una Storia di Crema e di dedicarla all’imperatore. La presentò quindi al Comune di Crema chiedendo che fosse pubblicata per poterne fare omaggio a Francesco I, ma gli venne rifiutata. Il Tadini si vendicò di questo affronto nominando come proprio erede il Comune di Lovere e non quello di Crema.

Alla sua morte, nel 1829, nominò come erede con sostituzione fidecommissaria perpetua di primogenitura, il conte Faustino Vimercati Sanseverino, con l’obbligo di aggiungere al proprio nome il cognome Tadini. Lasciò al Comune di Lovere una casa, la sua splendida pinacoteca ed un ricco patrimonio per costituire e mantenere una scuola di musica e di disegno.

Il conte Luigi Tadini fu sicuramente un personaggio bizzarro, ma fu anche un attento collezionista ed un generoso mecenate; la pinacoteca che, per vendicarsi dell’affronto subito dal Comune di Crema, donò alla cittadina di Lovere comprendeva quadri di Perugino, Guido Reni, Parmigianino, Bellini, Tintoretto, Tiziano, Veronese, Procaccini, Frà Galgario, Correggio, Palma il Giovane, Francesco Hayez, Vincenzo Hayez, Moretto, Canova, oltre ai cremaschi Civerchio, Barbelli, Pombioli ed altri.

Al conte Luigi è dedicato anche un manoscritto inedito conservato presso la Biblioteca Civica di Crema ed eseguito da G. B. Cagnana nel 1789: si tratta dell’elenco di tutte le proprietà del conte situate nel territorio di Vidolasco e Trezzolasco. Ogni campo, roggia, strada, canale o edificio di proprietà dei Tadini (compreso il palazzo e la chiesa dei Santi Faustino e Giovita) è descritto dal Cagnana con un disegno a colori che ne riproduce la pianta, le pertinenze ed i confini, il tutto è realizzato con dovizia di particolari ed abbellito con fantasiose cornici colorate.

I Vimercati Sanseverino mantennero i possedimenti in Vidolasco fino al 1909 quando il conte Annibale li vendette ai fratelli Pasquini.

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 Ultimo aggiornamento: 13/02/2019


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